Nel corso delle audizioni alla Camera (XII Commissione) nell’ambito dell’esame della Riforma del Terzo Settore, è intervenuta tra gli altri anche l’Agenzia delle Entrate.
Nel lungo resoconto che troviamo sul sito dell’Agenzia stessa, questa riporta un dato Istat in merito alle entrate del non profit, le quali – tenetevi forte – “derivano per il 47,3% dallo svolgimento di attività commerciali” (pag 15, par 3.8). Da questo numero fa derivare alcune considerazioni che qui tralascio.
47,3% di attività commerciali! E’ una cifrona, non l’avrei mai detto! Andiamo un pò a controllare. Ma sarà vero?
Sì, è vero che lo dice l’Istat (qui potete vedere alcune slide, andate a pag 13). Ma non è vero che sia vero. Mi spiego.
La commedia degli equivoci ha radici lontane. Quando ci fu il Censimento del non profit (fine 2012), ci trovammo tutti in difficoltà su una sezione – la 21.1. e la 24.1 – dove bisognava riportare i dati relativi alle entrate economiche. Al punto 6 “Entrate derivanti da vendita di beni e servizi”, secondo le istruzioni in nota, bisognava riportare “vendite di beneficenza; vendite di beni acquisiti da terzi a titolo gratuito a fini di sovvenzione; cessione di beni prodotti dagli assistiti e dai volontari; somministrazione di alimenti e bevande in manifestazioni e simili; prestazioni di servizi rese in conformità alle finalità istituzionali”. Come anche i sassi sanno, ma l’Istat ignora, gran parte di queste tipologie di attività NON sono vendite, sono non commerciali o per natura oppure sono decommercializzate ai sensi dell’art 143 e dell’art 148 TUIR (e analoghe previsioni IVA). Parte di queste attività possono avere invece rilievo commerciale.
Rilevai questa ed altre anomalie (chiamiamole con il loro nome: errori grossolani) in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 10 dicembre del 2012, dove scrissi
“Appare singolare la scelta di includere in un’unica voce tanto le entrate commerciali derivanti da vendita di beni e servizi, quanto quelle omologhe decommercializzate ai sensi della legislazione fiscale, rappresentate ad esempio dalle raccolte pubbliche di fondi o dalle aste di beneficenza. Ci si chiede la significatività del dato finale, che farà risultare sotto un’unica voce entrate dalla natura profondamente diversa“.
Preveggente? No, ho previsto ciò che era prevedibile, nulla di più.
Pertanto l’Agenzia delle Entrate è caduta in errore – e la si può capire! – partendo da un dato ufficiale del nostro Istituto di Statistica che ha male impostato il questionario. La vendita di beni e servizi (dove si sommano pere con mele) rappresenta il 18,3% del totale delle entrate alle quali l’Istat aggiunge “proventi da contratti o convenzioni con enti pubblici” (altro 29%). Ma anche in questo secondo caso si è fatto un errore marchiano. Come peraltro rilevato di recente dall’Agenzia delle Entrate con Circolare 34/2013, si fa presto a dire che tutte le convenzioni sono attività commerciale! Un esempio tra tanti: le organizzazioni di volontariato possono convenzionarsi con gli enti pubblici solo per il rimborso di costi sostenuti, e pertanto detta attività non ha natura commerciale.
Gli onorevoli della Commissione, anche sulla base delle considerazioni dei diversi enti intervenuti nelle audizioni, si formeranno la propria opinione. A parte che mi spaventa un pò che non ci sia un dibattito più ampio e più profondo – quello che ho sentito anche da chi è intervenuto a nome del non profit è davvero scoraggiante, per nulla analitico e autoincensante -, facciano comunque attenzione a prendere sic et simpliciter i dati dell’Istat e credere di ottenere una buona rappresentazione (ad esempio economica) del non profit.
Così non è!
Segnalo infine che nella lunga prolusione dell’Agenzia delle Entrate, la stessa è incorsa in un inciampo, un piccolo errore di aggiornamento.
Si è dimenticata – a pag 3 – di sostituire la vecchia legge sulle ONG (L 49/87) con la nuova disciplina sulla cooperazione sociale (L 125/14). Vige da due mesi e mezzo e non sarebbe male che ne fosse informata anche l’Agenzia.
Carlo Mazzini